Tutti gli articoli di Oscar Fantoni

12 maggio 1977: Piazza Giuseppe Gioacchino Belli

I cambiamenti non arrivano: te li cerchi. Non dico di aver cercato proprio il cambiamento che la mia vita subì quel giorno, ma di esserne stato comunque il protagonista. Se non fossi uscito dalla borgata, se non avessi scelto il liceo scientifico, se non avessi scelto proprio quello, se non avessi voluto scendere in strada contro la reprimenda del ministro Cossiga, se non… se non… Siamo quello che abbiamo vissuto ed io ho vissuto appieno quelle cose. Me le sono cercate, perchè non sono buono a starmente per fatti miei quando c’è qualcosa che non va. E quella proprio non andava.

Eravamo in un clima fortemente politicizzato, non come oggi, che i ragazzi vogliono fare i calciatori e le ragazze vogliono diventare veline per poi diventare fidanzate dei calciatori. Che poi, questi calciatori sembrano delle ballerine, esili e delicate che hanno paura di farsi male. Una volta c’erano Gigi Riva, Giuseppe Bruscolotti, Romeo Benetti. Uomimi e maschi che non risparmiavano mai lo scontro fisico. Piuttosto lo cercavano e perlopiù, lasciavano l’avversario a terra, dolorante. Ma del calcio non me n’è mai fregato nulla, come per la religione, la moda ed il pettegolezzo.

Politicizzato, dicevo. Ognuno dei ragazzi del liceo che frequentavo, si sentiva schierato a destra o a sinistra, più per la condizione della propria famiglia d’origine che per reali convinzioni ideologiche. Chi proveniva da famiglie agiate, di solito, era di centro o di destra. I figli delle famiglie operaie, di sinistra. I figli di operai che erano pure disagiati o con ulteriori problemi familiari finivano nell’ultrasinistra. Io dico che la scelta politica dei giovani negli anni ’70 era direttamente proporzionale a quanto incazzati fossero a casa e che scegliessero un determinato schieramento politico, per scaricare la colpa – o il merito – morale della propria condizione sociale sulla società, sul governo, sullo stato.

Quella volta scendemmo in piazza per manifestare contro il divieto di manifestare, imposto dal Ministero degli Interni presieduto da Francesco Cossiga. Perchè il governo approvasse quell’iniquo provvedimento, il precedente 22 aprile Cossiga relazionò in Parlamento con frasi del tono: « Deve finire il tempo dei figli dei contadini meridionali uccisi dai figli della borghesia romana ». Il provvedimento fu ampiamente appoggiato perfino dal Partito Comunista che vedeva nelle manifestazioni di piazza – spesso violente – un’aggressione armata allo stato.

Manifestavamo contro il governo, lo stato, il Ministero degli Interni, lo stesso Cossiga e contro il PCI che si smarcava da posizioni proletarie ed operaie. Un segno che ci sembrò l’inizio dell’imborghesimento di quel partito. Dopo, fu evidente che il nostro avversario era più cupo, minaccioso e sfuggente di quanto pensassimo.

Molti di noi – me compreso – erano completamente disarmati. Nessuno voleva fare del male a nessuno. Qualcuno aveva delle mazze di legno camuffate da asta portabandiera. Qualcun altro, però, era armato di tutto punto ed attuò contro tutti, vere strategie militari. Eravamo diverse migliaia, qualcuno dice 10.000, altri 100.000. Le forze dell’ordine erano scese in campo con 5.000 agenti in divisa in assetto antisommossa e chissà quanti altri in borghese.

Quando demmo inizio ad una sassaiola, le cose si complicarono e la polizia ci caricò ripetutamente. Furono gli esponenti “democratici” di alcune formazioni politiche parlamentari a negoziare con le forze dell’ordine che “concesse” il deflusso dei manifestanti in direzione di Trastevere. Ma fu una truffa e il rimedio si rivelò peggiore della malattia.

Quando fummo ben insaccati in una condizione da “OK Corral”, furono lanciati tanti lacrimogeni e si sentirono esplodere colpi di pistola. Di ogni calibro – dico adesso – piccolo e grosso. Ci sparavano addosso a sangue freddo. Come cani. Io, con un altro gruppetto di manifestanti amici ci stendemmo sotto un furgone posteggiato là ed aspettammo che le acque si calmassero, ma a pochissima distanza da noi, sul selciato c’era una ragazza sanguinante. Una del V anno del mio liceo. Qualcuno la caricò su una macchina ripartendo a tutta corsa e quello ci diede la speranza che ce l’avrebbe fatta. Ma non andò così.

Non ando bene per lei che ci lasciò la pelle e non andò bene per noi perchè – con i precedenti che avevamo – fummo subito accusati di essere stati gli autori di quel ferimento. Certo, le forze dell’ordine non potevano essere state: il proiettile mortale era un calibro 22 mentre loro – proprio da quell’anno – avevano adottato la tristemente famosa Beretta 92S Parabellum. Che è una calibro 9.

Quella notte non tornai a casa, andai a rifugiarmi nel luogo ocupato che già utilizzavamo da tempo per le nostre attività “politiche”. Costruivamo striscioni, disegnavamo dazibao, discutevamo sul da farsi, coltivavamo una cultura e intanto stavamo insieme. Era questo l’elemento più importante per noi allora: lo stare insieme e condividere i momenti della giornata. Forse una volta parlerò anche di questo posto.

Sotto casa mia, seppi poi, fu messa di piantone, una volante, La mia famiglia – mia madre e i miei fratelli – furono più volte interrogati sul dove fossi finito e sul quando sarei ritornato a casa. Non lo seppero mai, non tornai più a casa. Quel giorno stesso entrai in clandestinità, eludendo tutti i controlli e le ricerche che fecero su di me. Anche se non c’era stato alcun proceso, qualcuno mi aveva accusato, arringato e condannato. Non sarei vissuto a lungo in carcere, non potevo finire la mia vita a 18 anni senza aver fatto nulla. Non ho mai più rivisto la mia famiglia di allora. E non ho mai più utilizzato il mio vero nome. Una ferita che non si rimargina.

 

 

L’adunata del 18 maggio 1978

La mia vita è stata un susseguirsi di incubi, ma ogni situazione spaventosa che mi si parava davanti, mi faceva rimpiangere quella appena trascorsa. L’incubo per me è stato in costante aumento, compagno fedele e inseparabile, non mi ha mai più lasciato solo.

Ero andato a La Plage, a pochi chilometri da Marsiglia, per cercare – in due giorni di sole e mare – di levarmi di dosso l’odore di sudore e di cordite e dalla bocca il sapore della sabbia e del rancio. Allora mi sembrava schifoso, in seguito l’avrei desiderato come la migliore delle leccornie.

Avevo percorso i circa 20 chilometri che separavano Aubagne da La Plage, a cavallo di una Honda 400 Four che avevo noleggiato per l’occasione. Mi sarebbe anche piaciuto “incontrare” e pensai che la moto sarebbe stato uno strumento che mi avrebbe facilitato le “relazioni sociali”. Avevo 19 anni e andare forte era una delle cose che mi piaceva di più. Dopo l’altra, s’intende.

Il mio bagaglio civile, era ridotto all’osso. Quando mi arruolai non mi permisero di tenere nulla degli effetti personali, tranne l’equivalente di 50 franchi ed il rasoio da barba. Non avevo avuto modo di comprarmi niente di nuovo negli ultimi mesi, ma si sa, quando si entra in clandestinità c’è uno scotto da pagare. Con un anno di paga in tasca, avrei potuto rifarmi un bel guardaroba. Allora come adesso, però, non avevo grande passione per l’abbigliamento da fighetto e mi sarei limitato ad un paio di nuovi jeans, qualche maglietta e, forse, un giaccone pesante, nel caso fossi rimasto in Francia. Ma ci contavo poco.

Feci in tempo a registrarmi alla pensione che avevo scelto e a comunicare al comando i recapiti temporanei che avrei avuto durante quei due giorni. Mentre spendevo i miei primi 100 franchi per un paio di Wrangler’s e una camicia blu, alla pensione era già arrivata la chiamata dell’appel général. Al mio ritorno in pensione, trovai il messaggio del comando: rientrare con la massima urgenza. Meno male che non avevo comprato il giaccone pesante.

Sebbene non ne avessi nessuna voglia, feci di corsa il viaggio di ritorno ad Aubagne. La mia vacanza era durata un paio d’ore e l’odore della cordite non mi aveva mai abbandonato. Mi domandavo cosa poteva essere successo di così tanto grave da richiamare in servizio anche i novellini come me. Scoprii dopo, che avevano richiamato prima i novellini come me.

Tornato ad Aubagne restituii la Honda CB400 Four al sorpreso noleggiatore che non volle saperne di ridurre il prezzo del noleggio e rstituirmi qualche franco: avevo prenotato per due giorni e anche se l’avevo usata per tre ore, la moto era stata impegnata. Al comando l’aria era tesissima e frenetica, un plotone incompleto era già in cortile pronto alla partenza. Intuii che a completarlo mancavamo io e pochi altri sventurati nella mia stessa situazione. Andai a preparare lo zaino e a rivestire l’uniforme. Il Wrangler’s avrebbe atteso nell’armadietto molto, molto a lungo.

Tornammo a Marsiglia a bordo di due pullmann ed entrammo nella parte militare dell’aeroporto di Marignane. Ci imbarcammo su un Hercules C-130 della Lockeed che ci portò all’aeroporto di Solenzara, in Corsica. Là partecipammo ad una frettolosa adunata generale, dove la mia squadra fu messa agli ordini del Colonnello Vecchione e subito dopo imbarcata sul C130 in direzione di Kinshasa, la capitale dello Zaire, l’attuale Repubblica Democratica del Congo. Grosse sacche di insurrezione si erano sollevate ovunque intorno alla capitale e il governo Francese voleva rimpatriare i connazionali residenti là. Da Kinshasa dovevamo muovere in colonna autotrasportata verso Kolwezi, ma il tempo stringeva e, per quanto il nostro pilota spingesse, ogni minuto perso poteva voler dire altri morti tra i francesi residenti in Zaire.

Dopo circa tre ore di volo durante le quali l’aereo vibrò e ballò come non avevo mai sentito prima, atterramo per un rifornimento all’aeroporto di Tamanrasset, nell’Algeria meridionale. Ripartimmo rapidissimi, non più alla volta di Kinshasa ma di Kolwezi: Vecchione decise che ci saremmo paracadutati ed aveva comandato decollo e volo in assetto da guerra. Con l’aiuto delle tenebre, saremmo giunti di sorpresa – diceva lui – ed avremmo avuto maggiori possibilità per un’azione lampo.

Cinquanta legionari giovani e giovanissimi contro chissà quanti ribelli inferociti.

 

Maggio 1978, prima missione: paracadutati in Congo

In quei giorni avevo appena terminato l’anno di addestramento, dopo il mio ingresso in Legione. Un anno trascorso tra preparazione fisica e tecnica militare estrema, quella che non ti insegna come contrastare l’avanzata dell’avversario, ma come fermarlo definitivamente. Avevo da poco compiuto 19 anni.

 

Avevo appena terminato l’anno più duro della mia vita (almeno fino a quel momento), ed avevo ricevuto una licenza premio di tre giorni, la prima dopo più di 350 giorni ininterrotti di preparazione. Non che potessi andarmene chissà dove, avevo già cambiato nome ed il ragazzo che ero stato solo fino a un anno prima non esisteva più. Se mia madre mi avesse incontrato per strada, avrebbe faticato a riconoscermi.

Per trascorrere la mia prima vacanza, ero andato poco distante da Marsiglia, a La Plage, dove c’è un bel mare e dove mi sarei riposato dopo tutte quelle fatiche. Ma fui richiamato con la massima urgenza. Anzi, FUMMO richiamati, in 700 dovemmo convergere in Corsica, a Calvi. Nello Zaire, l’attuale Repubblica democratica del Congo, il governo Francese, il mio datore di lavoro, decise di intervenire per sedare le violenze che si stavano susseguendo a Lubumbashi, la capitale dello Shaba. Alle ore 1.30 del mattino del 18 maggio ricevemmo l’ordine a muoverci. Partimmo in volo da Solenzara alla volta di Kolwezi. Servivano otto ore di volo per atterrare a Kinshasa e quattro di autocolonna per Kolwezi. Il primo contingente di 50 Legionari al quale appartenevo anche io, fu paracadutato in tutta fretta e nel massimo segreto sulla capitale. Se fosse trapelata la minima notizia che 700 legionari erano in arrivo, i miei nuovi connazionali sarebbero stati massacrati.

Certo, paracadutavano i più giovani e relativamente più inesperti. Sacrificabili, direi io.

Durante la discesa fummo bersagliati dalla fucileria ribelle, ma giunti a terra mettemmo tutti a tacere, in qualche modo. Ognuno di noi aveva già gli obiettivi e gli incarichi assegnati e, nonostante un certo disaccordo nelle disposizioni tra i comandi Francese ed Americano, facemmo della Città Vecchia una città aperta. Bonificammo tutte le aree in mano ai ribelli, liberammo gli ostaggi dalle mani dei ribelli e le strade dai numerosissimi cadaveri già in decomposizione per il gran caldo.

Ma quello che definitivamente ridusse al silenzio e all’inoffesività le truppe ribelli, furono le azioni del mio reparto, il II reparto di Legionari paracadutisti al comando del Colonnello Vecchione: noi a piedi e loro con due veicoli corazzati ci affrontammo in una lotta impari ma avemmo la meglio. Io c’ero. I ribelli capirono che non potevano contrastarci nemmeno con le bombe.