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A piedi, di notte nel deserto del Libano: una missione molto speciale

In quel giorno del 1982 – eravamo impegnati nell’operazione Italcon -mi fu affidata una nuova missione speciale. Il comando interforze richiedeva uno specialista, un elemento esperto e addestrato, che si introducesse nel covo del terrorista Husam Mehvlevi ed eliminarlo. Bombardarlo a distanza era stato inspiegabilmente vietato da americani, italiani e francesi. Il terrorista, che era l’autore dell’atroce attentato alla guarnigione americana di qualche giorno prima, andava sorpreso e annichilito di persona. Bisognava dimostrare – con la violenza- che la forza di pace non si lasciava intimidire.
Mi equipaggiai con un fucile di precisione MAS FR-F1, efficace fino a 800 metri, una Beretta 92S, un paio di granate e il mio inseparabile coltello da caccia Raptor, che tenevo sempre nell’anfibio di destra.
Secondo il rapporto degli uomini delle Piscine, i Servizi Segreti Francesi, il covo di Mehvlevi si trovava poco discosto della città di Joub Jannine, nel Libano meridionale. L’uomo si nascondeva al centro di un’area desertica, in una grande abitazione incastrata sotto uno spuntone di roccia, che ne fortificava il tetto e la parete nord-ovest. La villa era pattugliata da due jeep che non si fermavano mai, con a bordo quattro uomini armati fino ai denti. All’esterno  era protetta da reticolati, filo spinato elettrificato, fossato e telecamere agli infrarossi.
Percorsi in jeep la strada che da Beirut portava verso il sud-est del Libano e mi fermai accanto a un bacino artificiale, dove c’era una scarpata dove occultai il mezzo. Mi restavano otto chilometri da percorrere a piedi, nel deserto, in direzione sud, verso la dimora di Mehvlevi. In condizioni normali la velocità di un uomo a piedi è di circa 3,6 chilometri l’ora, ma sulla sabbia, di notte e con un’attrezzatura di oltre dieci chili addosso, la mia velocità si sarebbe quasi dimezzata. Stimai che avrei impiegato circa quattro ore per raggiungere il rifugio e altre quattro per tornare indietro e riprendere la jeep.
Decisa allora di arrivare al bacino artificiale di Joub Jannine alle quattro del mattino, quando l’oscurità sarebbe stata profonda e avrei potuto disporre di tre ore di buio. Alle 04:05 avevo già occultato la jeep sulla scarpata, sotto il livello stradale. Con la bussola e il visore notturno mi orientai in direzione sud e mi avviai a passo cadenzato nel cuore del deserto libanese, valutando l’ampiezza dei miei passi con tutti i sensi in allerta. Impiegai 3 ore e 20 minuti per raggiungere la località prefissata.

La casa di Husam Mehvlevi
La casa di Husam Mehvlevi

Albeggiava. Tenni la luce dietro di me per avvicinarmi e feci una lunga deviazione a semicerchio. Mi distesi sul terreno roccioso e montai il mirino telescopico del FR-F1. Alle 07:28, quando guardai nell’oculare inquadrando l’obiettivo, capii perché l’Interforze aveva vietato il bombardamento. Nella grande casa c’erano anche le sei mogli di Mehvlevi e tutti i suoi figli.
Il terrorista Husam Mehvlevi usava i propri familiari come assicurazione sulla vita.
Attesi che le due jeep completassero un giro intero, per valutare il tempo che avevo a disposizione. Il giro durava otto minuti e le due pattuglie non si incontravano mai sulla facciata della casa. Stimai in quattro minuti il tempo di reazione. Poi avrebbero cercato di individuarmi. Altri cinque minuti al massimo e sarebbero venuti a cercarmi. Non c’erano altri uomini.
Individuai il bersaglio attraverso l’ampia vetrata di una veranda. Era senz’altro lui il capo. Husam Mehvlevi, derviscio di origini turche, classe 1960, una vita trascorsa nel traffico internazionale di droga. Seguendo le orme di suo padre Alì, aveva creato un esercito personale per riportare quella porzione di mondo arabo, che considerava la sua casa, ai fasti e al prestigio del passato strappati via da un invasore avido e spietato. Un’eredità raccolta da quel padre che, nel tentativo di scatenare una guerra che cancellasse gli avamposti degli odiati israeliani, era stato ucciso da un bancario svizzero, ex-marine degli Stati Uniti.
La prima jeep passò per il giro di pattuglia. Dopo quattro minuti, puntuale la seconda. Era gente addestrata quella. Mehvlevi era a meno di 700 metri. Ne inquadrai la testa e calcolai la traiettoria del proiettile, in leggera discesa, per circa trentacinque centimetri. Aggiustai il tiro, mirando sopra la testa e approssimando per difetto. Valutai al 90% la possibilità di colpire in un punto compreso tra la sommità del cranio e il mento. Avevo caricato il FR-F1 con pallottole espansive.  Inspirai profondamente e trattenni il fiato. Mancava un minuto al passaggio della prima jeep; gli occupanti non avrebbero avuto il tempo di capire cosa stava succedendo. Alle 07:48 premetti il grilletto del FR-F1 silenziato che emise un “flop” seguito da un “tlak”. La faccia di Mehvlevi sparì in una nube rosa.  Le alte grida che si levarono dalla casa mi giunsero come il lontano vociare di una scuola materna. Ricaricai il fucile e
attesi altri sessanta secondi, ascoltando i battiti del mio cuore. Poi la jeep arrivò e fu fermata dalle donne e dai bambini impazziti. Inquadrai la testa dell’uomo alla guida, corressi il tiro e premetti il grilletto. Un nuovo “flop” e un nuovo “tlak”, e anche la testa dell’autista scomparve in una nube rosa. Un altro bossolo sprofondò nella sabbia ancora fredda del deserto libanese. L’altro occupante saltò giù dalla jeep terrorizzato. Impugnando una grossa pistola che sembrava una Desert Eagle, corse verso la casa, alla ricerca di un riparo. La terza pallottola espansiva, esplosa dal FR-F1, gli spezzò la schiena, abbattendolo sulle scale. Riarmai ancora il fucile e aspettai la seconda jeep. La vidi arrivare alle 7:52 e senza attendere altro feci fuoco contro il motore del veicolo. Due colpi consecutivi segnarono la fine della corsa. Forse non era necessario uccidere ancora. Forse bastava rendere inservibile la jeep. Raccolsi i cinque bossoli che l’arma automatica aveva sputato nella sabbia, mi rialzai, caricai il fucile in spalla e ripresi il cammino verso Joub Jannine. Avevo più di tre ore di marcia davanti a me, ma non ci sarebbe stata la notte fresca e ventilata del Libano meridionale a offrirmi sollievo. Il sole, anche se ancora basso, era già cocente e cominciava ad arroventare la sabbia. Su quello che restava di Husam Mehvlevi, attratto dall’odore del sangue, si era già radunato un nugolo di mosche.

(Estratto dal capitolo 5 de “Il paese delle donne“)

Agosto 1982: il massacro di Sabra e Chatila

Erano cinque anni che ero in Legione. Dei 15 giorni all’anno dei quali avrei avuto diritto per un totale di settantacinque giorni di ferie arretrate, avevo usufruito di dieci in tutto . Avanzavo sessantacinque giorni di licenza da trascorrere in territorio francese o in uno dei territori assoggettati. Eravamo alla fine di luglio, e le vacanze non mi interessavano. Ma me le assegnarono e mi stavo preparando a tornare a La Plage, vicino Marsiglia, dove avrei trovato spiaggia, mare e svago di vario genere. L’adunata, stavolta, mi colse prima che potessi organizzare qualsiasi cosa.

La missione con destinazione Beirut era denominata Italcon. La capitale del Libano, era stata invasa dai ribelli dell’OLP capeggati da Yasser Arafat. Gli israeliani li tenevano in assedio, e Arafat chiese l’intervento di una forza multinazionale per evitare violenze e spargimenti di sangue.

Il contingente della Legione arrivò, insieme all’esercito regolare francese a Beirut il 21 agosto. Insieme a italiani e americani, entrammo nel centro della città, agevolando l’uscita da Beirut delle truppe dei ribelli. La forza multinazionale aveva un mandato valido fino al 21 settembre successivo, ma il primo del mese l’evacuazione dell’OLP da Beirut era conclusa. Il 3 settembre anche la DIfesa Americana ritirò le proprie truppe. Sembrava tutto in ordine.

Il ministero della difesa francese, però, richiese che un manipolo di propri “rappresentanti in incognito” restasse sul posto per almeno un altro mese, mescolandosi alle genti del luogo. In altre parole, voleva che un gruzzolo di legionari esperti e camuffati, restasse di vedetta per osservare eventuali anomalie. Non ce ne furono poche, né per i palestinesi, né per noi legionari.

Una strada di Beirut dopo l'esplosione di un'autobomba
Una strada di Beirut dopo l’esplosione di un’autobomba

Restammo in diciotto e ci accampammo a Sabra e a Chatila dove interrammo anche due casse di armi e munizioni. A Sabra, nel sottoscala di una piccola stalla abbandonata, dove veniva sversato il letame, alloggiammo una radiotrasmittente la cui antenna a filo fu distesa e camuffata lungo il perimetro della lercia costruzione.  Organizzammo tre drappelli di sei uomini l’uno su due turni. La giornata di ventiquattro ore fu suddivisa in tre intervalli da otto ore l’uno durante i quali un drappello riposava, uno – diviso un due unità da tre uomini – faceva ronda ed un altro svolgeva mansioni logistiche come il procurare cibo ed acqua e verificare che i due depositi di armi fossero in sicurezza. Al termine del periodo di otto ore, il drappello in ronda passava al riposo, quello a riposo passava alla logistica e quello logistico andava di ronda. Stabilimmo che i turni fossero dalle 0:00 alle 8:00, dalle 8:00 alle 16:00 e dalle 16:00 alle 24:00. Al cambio di turno della mezzanotte svolgevamo una piccola riunione organizzativa, poi trascorrevamo le ore di veglia cercando di dare nell’occhio il meno possibile.

Andammo avanti così per due settimane, durante le quali non successe niente di particolare e, anzi, stimavamo ormai di riprendere la strada di casa senza aver compiuto una sola azione militare, se si eccettuava per la quotidiana trasmissione telegrafica di un breve notiziario cifrato. Alle 17:00 del 16 settembre, però, quella situazione di pace apparente cambiò radicalmente.

Il mio drappello ed io eravamo a prendere acqua e vettovaglie in un mercatino improvvisato appena fuori Sabra. Notammo una gran nuvola di polvere ed un crepitio piuttosto familiare, attutito dalla sabbia e dalla distanza. Erano raffiche di IMI UZI, la pistola mitragliatrice da 600 colpi al minuto e di IMI Galil, il fucile mitragliatore da 750 colpi al minuto. Un esercito di cristiani maroniti, con il probabile appoggio degli israeliani, stava massacrando gli abitanti di Sabra e Chatila. Molti di essi, vecchi, donne e bambini compresi venivano sgozzati, sventrati e smembrati a colpi di sciabola e di coltello. Quelli più fortunati prendevano una raffica di UZI nella schiena.

Ci dividemmo in due gruppi: uno, il mio, andò verso Sabra, dove riposavano tre commilitoni ed uno verso Chatila dove riposavano gli altri tre. Cercando di non dare nell’occhio in quel baccano infernale, mi avvicinavo a grandi passi alla stalla della radio. Prima di infilarmi in quella topaia, vidi i commilitoni di quardia cadere sotto le raffiche: avevano dissotterrato le armi e cercavano di rispondere al fuoco.

Con la mente che cercava di formulare il messaggio da inviare mi precipitai alla radio, la accesi e, noncurante del fatto che avrei potuto essere intercettato e localizzato, diedi allo stadio finale la massima potenza, poi telegrafai per due volte: Village attaqué. Beaucoup de morts parmi les civils, femmes et enfants aussi. Six légionnaires morts. Il terzo tentativo non mi riuscì: fui raggiunto alla testa da un colpo che mi tramortì. Il risveglio non fu dei migliori.