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L’adunata del 18 maggio 1978

La mia vita è stata un susseguirsi di incubi, ma ogni situazione spaventosa che mi si parava davanti, mi faceva rimpiangere quella appena trascorsa. L’incubo per me è stato in costante aumento, compagno fedele e inseparabile, non mi ha mai più lasciato solo.

Ero andato a La Plage, a pochi chilometri da Marsiglia, per cercare – in due giorni di sole e mare – di levarmi di dosso l’odore di sudore e di cordite e dalla bocca il sapore della sabbia e del rancio. Allora mi sembrava schifoso, in seguito l’avrei desiderato come la migliore delle leccornie.

Avevo percorso i circa 20 chilometri che separavano Aubagne da La Plage, a cavallo di una Honda 400 Four che avevo noleggiato per l’occasione. Mi sarebbe anche piaciuto “incontrare” e pensai che la moto sarebbe stato uno strumento che mi avrebbe facilitato le “relazioni sociali”. Avevo 19 anni e andare forte era una delle cose che mi piaceva di più. Dopo l’altra, s’intende.

Il mio bagaglio civile, era ridotto all’osso. Quando mi arruolai non mi permisero di tenere nulla degli effetti personali, tranne l’equivalente di 50 franchi ed il rasoio da barba. Non avevo avuto modo di comprarmi niente di nuovo negli ultimi mesi, ma si sa, quando si entra in clandestinità c’è uno scotto da pagare. Con un anno di paga in tasca, avrei potuto rifarmi un bel guardaroba. Allora come adesso, però, non avevo grande passione per l’abbigliamento da fighetto e mi sarei limitato ad un paio di nuovi jeans, qualche maglietta e, forse, un giaccone pesante, nel caso fossi rimasto in Francia. Ma ci contavo poco.

Feci in tempo a registrarmi alla pensione che avevo scelto e a comunicare al comando i recapiti temporanei che avrei avuto durante quei due giorni. Mentre spendevo i miei primi 100 franchi per un paio di Wrangler’s e una camicia blu, alla pensione era già arrivata la chiamata dell’appel général. Al mio ritorno in pensione, trovai il messaggio del comando: rientrare con la massima urgenza. Meno male che non avevo comprato il giaccone pesante.

Sebbene non ne avessi nessuna voglia, feci di corsa il viaggio di ritorno ad Aubagne. La mia vacanza era durata un paio d’ore e l’odore della cordite non mi aveva mai abbandonato. Mi domandavo cosa poteva essere successo di così tanto grave da richiamare in servizio anche i novellini come me. Scoprii dopo, che avevano richiamato prima i novellini come me.

Tornato ad Aubagne restituii la Honda CB400 Four al sorpreso noleggiatore che non volle saperne di ridurre il prezzo del noleggio e rstituirmi qualche franco: avevo prenotato per due giorni e anche se l’avevo usata per tre ore, la moto era stata impegnata. Al comando l’aria era tesissima e frenetica, un plotone incompleto era già in cortile pronto alla partenza. Intuii che a completarlo mancavamo io e pochi altri sventurati nella mia stessa situazione. Andai a preparare lo zaino e a rivestire l’uniforme. Il Wrangler’s avrebbe atteso nell’armadietto molto, molto a lungo.

Tornammo a Marsiglia a bordo di due pullmann ed entrammo nella parte militare dell’aeroporto di Marignane. Ci imbarcammo su un Hercules C-130 della Lockeed che ci portò all’aeroporto di Solenzara, in Corsica. Là partecipammo ad una frettolosa adunata generale, dove la mia squadra fu messa agli ordini del Colonnello Vecchione e subito dopo imbarcata sul C130 in direzione di Kinshasa, la capitale dello Zaire, l’attuale Repubblica Democratica del Congo. Grosse sacche di insurrezione si erano sollevate ovunque intorno alla capitale e il governo Francese voleva rimpatriare i connazionali residenti là. Da Kinshasa dovevamo muovere in colonna autotrasportata verso Kolwezi, ma il tempo stringeva e, per quanto il nostro pilota spingesse, ogni minuto perso poteva voler dire altri morti tra i francesi residenti in Zaire.

Dopo circa tre ore di volo durante le quali l’aereo vibrò e ballò come non avevo mai sentito prima, atterramo per un rifornimento all’aeroporto di Tamanrasset, nell’Algeria meridionale. Ripartimmo rapidissimi, non più alla volta di Kinshasa ma di Kolwezi: Vecchione decise che ci saremmo paracadutati ed aveva comandato decollo e volo in assetto da guerra. Con l’aiuto delle tenebre, saremmo giunti di sorpresa – diceva lui – ed avremmo avuto maggiori possibilità per un’azione lampo.

Cinquanta legionari giovani e giovanissimi contro chissà quanti ribelli inferociti.

 

Maggio 1978, prima missione: paracadutati in Congo

In quei giorni avevo appena terminato l’anno di addestramento, dopo il mio ingresso in Legione. Un anno trascorso tra preparazione fisica e tecnica militare estrema, quella che non ti insegna come contrastare l’avanzata dell’avversario, ma come fermarlo definitivamente. Avevo da poco compiuto 19 anni.

 

Avevo appena terminato l’anno più duro della mia vita (almeno fino a quel momento), ed avevo ricevuto una licenza premio di tre giorni, la prima dopo più di 350 giorni ininterrotti di preparazione. Non che potessi andarmene chissà dove, avevo già cambiato nome ed il ragazzo che ero stato solo fino a un anno prima non esisteva più. Se mia madre mi avesse incontrato per strada, avrebbe faticato a riconoscermi.

Per trascorrere la mia prima vacanza, ero andato poco distante da Marsiglia, a La Plage, dove c’è un bel mare e dove mi sarei riposato dopo tutte quelle fatiche. Ma fui richiamato con la massima urgenza. Anzi, FUMMO richiamati, in 700 dovemmo convergere in Corsica, a Calvi. Nello Zaire, l’attuale Repubblica democratica del Congo, il governo Francese, il mio datore di lavoro, decise di intervenire per sedare le violenze che si stavano susseguendo a Lubumbashi, la capitale dello Shaba. Alle ore 1.30 del mattino del 18 maggio ricevemmo l’ordine a muoverci. Partimmo in volo da Solenzara alla volta di Kolwezi. Servivano otto ore di volo per atterrare a Kinshasa e quattro di autocolonna per Kolwezi. Il primo contingente di 50 Legionari al quale appartenevo anche io, fu paracadutato in tutta fretta e nel massimo segreto sulla capitale. Se fosse trapelata la minima notizia che 700 legionari erano in arrivo, i miei nuovi connazionali sarebbero stati massacrati.

Certo, paracadutavano i più giovani e relativamente più inesperti. Sacrificabili, direi io.

Durante la discesa fummo bersagliati dalla fucileria ribelle, ma giunti a terra mettemmo tutti a tacere, in qualche modo. Ognuno di noi aveva già gli obiettivi e gli incarichi assegnati e, nonostante un certo disaccordo nelle disposizioni tra i comandi Francese ed Americano, facemmo della Città Vecchia una città aperta. Bonificammo tutte le aree in mano ai ribelli, liberammo gli ostaggi dalle mani dei ribelli e le strade dai numerosissimi cadaveri già in decomposizione per il gran caldo.

Ma quello che definitivamente ridusse al silenzio e all’inoffesività le truppe ribelli, furono le azioni del mio reparto, il II reparto di Legionari paracadutisti al comando del Colonnello Vecchione: noi a piedi e loro con due veicoli corazzati ci affrontammo in una lotta impari ma avemmo la meglio. Io c’ero. I ribelli capirono che non potevano contrastarci nemmeno con le bombe.