
E’ una notte di metà giugno, ma nella capitale fa freddo. In quella capitale può far freddo anche in agosto. Specie a mezzanotte, quando il sole è sparito da ore dietro l’orizzonte e sotto la densa coltre di nubi spira la tramontana. Là, in quella capitale del nord Europa, la temperatura scende velocemente. Un giovane uomo dalla corporatura alta e muscolosa e gli abiti troppo leggeri per reggere quel vento e quel freddo, cammina a passo spedito sul marciapiede. Sembra che sappia dove andare, ma non è così. Gli ordini che ha ricevuto parlano chiaro: “Percorrere in entrambe le direzioni e su entrambi i marciapiedi la Upper Thames Street tra il Tower Bridge e il Blackfriars Bridge in attesa di contatto”. Il ragazzo ha già percorso due volte il marciapiede di destra e due quello di sinistra, facendo un giro in senso orario e uno in senso antiorario. E’ solo, infreddolito e non capisce il senso di quella missione. Come di molte altre, del resto. Quando arriva per la seconda volta sulla sponda illuminata del London Bridge, un’automobile con la guida a sinistra – un’Alfa Romeo GTV – gli si affianca e un uomo grasso dalla faccia sorridente seduto al posto del passeggero, gli si rivolge come se lo conoscesse da sempre:
«Saglie, guagliò.»
Il grassone sudaticcio e con la barba incolta, scende dalla vettura, gli lascia il posto anteriore e si sistema a fatica sullo scomodo sedile posteriore della coupé. Il giovane infreddolito, per un istante, prima di salire in macchina, chiude gli occhi a fessura, interrogandosi su chi possa essere quella gente dall’inconfondibile idioma. Con aria distratta scruta in lungo e in largo il parabrezza della vettura alla ricerca di quel bollino che – gli hanno detto – sarà il loro segno di riconoscimento. L’autista della GTV, un ragazzo di poco più vecchio di lui, guida tenendo una sigaretta tra le labbra con l’occhio sinistro socchiuso per il fumo che lo fa lacrimare.
Trovato con lo sguardo il bollino, il giovanottone sale a bordo dell’Alfa Romeo. Percorrono qualche chilometro, poi l’autista parcheggia accanto a un condominio e il grassone, il cui odore di sudore satura l’abitacolo, scende dalla vettura. Prima di sparire nel condominio si rivolge al ragazzo con tono ironico puntandogli un dito dritto sul viso:
«Mò accummencia ‘o lavoro tuojo, Signor “Agenzia”. Dieci minuti e torno, non state in pensiero.» Il nome di fantasia, sulla bocca del grassone, appare grottesco, quasi ridicolo, a tratti offensivo.
«Tu pensa a fare bene il tuo, palla di lardo. Per te sono “Signore”, e quel dito… Quando torni ti dico dove te lo devi ficcare.»