Un estratto dal primo capitolo de “Il paese delle donne”

L’alba fredda e livida aveva appena cominciato a diradare il buio della notte, quando il treno si fermò a Castelfranco Veneto, una delle stazioni di interscambio fra la linea Padova-Bassano e la Milano-Udine. Chiunque partisse da Milano per raggiungere Bassano del Grappa, doveva passare da Castelfranco.

Era in treno da diverse ore. Ormai il viaggio volgeva al termine, ma la fermata in stazione a Castelfranco e il cambio di vettura gli offrirono l’occasione per un diversivo. Nello scompartimento entrò un trio di business-men dall’inconfondibile accento lumbard.

I tre, che trovarono posto vicino a lui, erano subito risultati insopportabili. Erano tra i venticinque e i cinquanta anni, annegati in giacche color cane da megastore. Portavano cravatte annodate a carciofo, penne multicolori nel taschino, cuffiette per il lettore MP3, valigette porta computer, cellulari alla cintura come novelli Zeb Macahan. Uno di loro, il più basso, grassoccio e forforoso, ostentava una cartellina in similpelle dalla quale spuntava una copia spiegazzata de il Sole24Ore. Doveva essere il capetto. Un altro aveva i capelli rasati quasi a zero, mentre il terzo li aveva lunghi, unti e spettinati. Tutti e tre parlavano contemporaneamente ad alta voce, forse per vincere il volume dei rispettivi lettori MP3.

Dopo aver dato una rapida occhiata al gruppetto, Oscar sorrise impercettibilmente e rivolse lo sguardo alla campagna che scorreva fuori del finestrino. I tre si tolsero le giacche color cane, le sistemarono sul graticcio in alto e restarono in maniche di camicia. Il grassoccio ne indossava una a mezze maniche – un tempo doveva essere stata bianca – da cui traspariva la maglietta della salute. Le camicie degli altri due sembravano mongolfiere. Uno, in un triste quanto maldestro tentativo di essere stylish, aveva le iniziali ricamate sul polsino.

«Sediamozi qua, dèi, così ho lo spezio per appozzare la valizètta» esordì quello con l’abito color cane fulvo. Era impiccato in una cravatta dal nodo grosso come un carciofo. Oscar lo soprannominò mentalmente “Mezzemaniche”

«Figa, non ti rimetterai mica le cuffiètte dell’ipòd, vèèero? Che cazzo!» Fece l’altro con le penne di plastica nel taschino. Oscar decise che questo era “CazzoFiga”.

«Dai, baüscia, lo sèi che mi piace il rock» disse Mezzemaniche. «Ho tutta la collezione di Elvis! Sono un rockettaro sfegatato io. Adèsso apro anche il laptop, ho un checkmail del brief di ieri sugli assets. Sai che nella conference-call con gli olandesi abbiamo scoperto un threat a causa di un misunderstanding? Il capo del mio capo era furioso: il suo capo gli ha dato una bella lavata di capo.»

«Figa, non me l’aspettavo!» disse CazzoFiga il rasato. «Cazzo è un anno che lavoriamo insieme e non ti facevo metallaro.»

Il livello di sopportazione di Oscar per il prossimo ebbe un ulteriore, leggero calo.

«Macché metallaro, dèi» s’intromise il capellone che Oscar aveva ridenominato “L’Unto”. «Non ha detto mica Guns & Roses, Europe o Bon Jovi. Quelli sono asset da un milione di dollari a concerto! I loro consulenti finanziari fanno fatica con il cash-flow che devono gestire e vivono in conference-call perenne.»

«See, perché adesso gli Europe sono metallari?» incalzò CazzoFiga.

«I Guns and Roses fanno street rock non metal» pontificò Mezzemaniche.

«Zerto che voi due non capite un cazzo di musica!» finì l’Unto.

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